Nella piazza Rovereto di Domodossola, per sei giorni e cinque notti, si è alzata una tenda. Una tenda, non un monumento. Una cosa fragile, cucita con stoffe leggere, sorretta da aste di plastica, tenuta sui ciottoli da foratini contro il vento, e dalla speranza che non ci fosse mai una tempesta tipica di queste terre. Non avrebbe mai protetto dal freddo rigido o dalla pioggia battente, ma accoglieva. È lì che centinaia di persone si sono fermate, hanno guardato negli occhi l’ingiustizia, hanno ascoltato storie, hanno messo il loro nome accanto alla parola “giustizia per Gaza”. E intanto, a migliaia di chilometri, sotto altre tende – quelle degli sfollati, dei profughi, dei sopravvissuti – la vita si sgretola, un minuto alla volta.
Gaza oggi è un abisso. Non ci sono altre parole, e forse anche queste suonano stanche, inadeguate. Perché come si racconta l’odore della carne bruciata nelle strade, come si scrive il silenzio di una madre che non ha più lacrime per piangere il figlio sotto le macerie? Come si misura il peso di una vita che a tre anni ha già visto più morte che gioco, che a dieci ha imparato a distinguere il fischio dei droni, che a sedici non sogna più nulla? Non è solo guerra. È annientamento. È cancellazione dell’umano. Gaza non è una zona di combattimento. È un mattatoio a cielo aperto. Le bombe piovono sui quartieri come grandine in una tempesta che non ha stagione, né tregua. Gli ospedali – quando ancora riescono a funzionare – diventano camere mortuarie. Le scuole, i mercati, le case, ogni angolo è bersaglio. Ogni corpo è bersaglio. E chi sopravvive porta su di sé il marchio dell’invisibilità: nessuna telecamera che rimanga abbastanza a lungo, nessuna condanna che pesi davvero. Solo macerie e il silenzio dei potenti.
Eppure noi, da una piccola città incastonata tra le montagne, ci siamo messi in ascolto. Abbiamo voluto dire che non ci arrendiamo all’indifferenza. Che la distanza non è scusa, che l’impotenza non è neutralità. La nostra tenda era povera, ma piena: di fotografie che mostravano occhi e ferite, di libri che raccontavano storie negate, di musiche e performance artistiche che piangevano e cantavano insieme. Abbiamo digiunato a staffetta, abbiamo resistito con i nostri corpi svegli e stanchi, abbiamo parlato, ci siamo abbracciati, ci siamo indignati, insieme. Abbiamo raccolto più di mille firme, più di duemilacinquecento euro, ma soprattutto – e questo conta più di tutto – abbiamo aperto una breccia nell’apatia. Perché ogni volto che si è fermato davanti alla tenda è stato un atto di disobbedienza alla rassegnazione. Ogni firma è stato un urlo gentile. Ogni parola condivisa è stata una scintilla. E in mezzo a tutto questo, il dolore di Gaza non ci è sembrato più un’eco lontana, ma qualcosa che ci attraversa. Perché non c’è libertà possibile che possa ignorare l’oppressione altrui. Non c’è giustizia che possa germogliare sopra il sangue dei bambini. Non c’è futuro per nessuno se una parte dell’umanità viene condannata all’estinzione psicofisica sotto le bombe, giorno dopo giorno.
E allora no, non è solo solidarietà. È alleanza, è rabbia, è amore radicale. Gaza è un grido che non possiamo spegnere. È la prova che il mondo che ci viene imposto – con le sue guerre selettive, le sue ipocrisie politiche, i suoi confini tracciati con il ferro e il fuoco – è un mondo da rifiutare. Lì non si sta morendo solo di armi, ma di isolamento, di cinismo, di impunità. E chi sopravvive non potrà tornare alla normalità, perché niente sarà più normale. Bambini mutilati, madri impazzite dal lutto, adolescenti cresciuti tra le macerie, corpi e menti segnati per sempre: questo è il futuro che viene negato ogni giorno. Come anarchico ero lì non per gestire l’orrore, ma per distruggere le sue cause. Perché non ci può essere pace senza libertà, e non ci può essere libertà dove regnano l’occupazione, l’assedio e la morte. La tenda della pace, in fondo, è solo un inizio.
Un seme piccolo, fragile, ma capace di germogliare tra le crepe del cemento e del disinteresse.
Il Comune di Domodossola (come molte istituzioni italiane più o meno locali), ha riconosciuto lo Stato di Palestina: questo atto, a mio avviso, va esattamente nella direzione opposta al senso della nostra tenda, e si incanala in una retorica dei “due popoli, due Stati” tanto cara a chi scenderà in piazza il 7 giugno prossimo e a tutto l’arco parlamentare di mezzo mondo. Una teoria nazionalista non solo priva di ogni logica razionale (su quello che potrebbe continuare a succedere nel riconoscere e imporre due Stati che continuano a scannarsi vicendevolmente), ma anche lontana dalla realtà contingente. Lo slogan che continua a caratterizzare le piazze internazionali pro-Pal rimane, indiscutibilmente, “Free Palestine from the river to the sea”: un motto tanto caro alla diaspora palestinese che ha un mix di sapore patriottico-religioso e razzista. Chi sostiene gli ideali politici che ci sono dietro i concetti “due popoli, due Stati” e “Palestina libera fino alla vittoria”, e marchia come “utopico” il progetto di un mondo senza Stati e senza confini, forse non ha mai riflettuto davvero sul fatto che, storicamente, tre delle realtà più rilevanti che stanno determinando questa situazione (i cui Stati che ne sono derivati, oggi sono protagonisti diretti o indiretti dei conflitti in Asia occidentale), sono “utopie” realizzate: gli Stati Uniti d’America, l’Unione Sovietica e Israele. Alle loro origini, questi tre Stati furono sogni, ideali semi-magici e radicalmente improbabili, tali che il semplice prospettarli pareva contravvenire l’ordine fino ad allora vigente nel mondo; avevano quasi tutto contro, e questa sfida parve potenziarsi proprio grazie alle avversità frapposte alla loro realizzazione.
Ai nostri giorni questi sogni fanno parte delle realtà e delle preoccupazioni quotidiane del mondo intero: dimenticate o convertite in mito legittimatore, queste utopie, che un giorno furono tali, sono ora guardate senza meraviglia e con disincanto, con rimprovero e con timore. E grazie a questa deviazione di prospettiva apprendiamo che l’utopia non è incompatibile con la realtà politica, ma piuttosto le serve da fondamento. Ma è proprio la realtà quella che esibisce, senza tanti misteri, le contraddizioni della perfezione, la nostra fondamentale incongruenza con il meglio che aneliamo e che promettiamo. Queste tre “utopie” furono il frutto dello sradicamento e dell’esilio. L’internazionalismo fu per i pellegrini americani una condizione di rigenerazione creatrice, per i russi una dottrina rivoluzionaria e per gli ebrei il loro destino, il loro segnale di eletti e la loro maledizione. Non mi pare superfluo segnalare, quindi, che Trump, Putin e Netanyahu rappresentino, oggi, i volti dei tre Stati più aggressivamente sciovinisti e patriottardi del mondo: un paradosso in più, o forse una conseguenza inevitabile della negazione negata. Ma una differenza essenziale (fra le tante altre a mio avviso più superficiali) separa due di queste utopie alla terza: chi ci bolla oggi come “utopisti”, da una parte si aspettava da Israele “qualcosa di diverso” di un altro Stato, meno atroce e banale di quelli già esistenti, dall’altra si attende da un’ipotetica Palestina, espressione del suo popolo, che sia memore delle varie nakba e, quindi, che non sia più indegna di tutti gli altri Stati.
Ma il compito di chi si sente profondamente internazionalista è di contribuire a disarmare ideologicamente quei patriottismi che ancora ci affliggono, al fine di riuscire, così, a disattivare tutto il resto del loro dispositivo bellico. L’idea di Patria è una nozione vergognosamente teologica, tanto più distruttiva quanto più imperiosamente monoteista sia la divinità che la animi. Per questo non penso che tutti i patriottismi, di cui oggi soffriamo, siano ugualmente dannosi, sebbene tutti, per il solo fatto di esserlo, mi paiano potenzialmente accecanti e ingannevoli: ce ne sono di ridicoli, come in una qualsiasi di quelle regioni (Padania in testa) dotatesi in tutta fretta di una vanitosa bandierina e di una serie di simboli e di segnali d’identità acconciati con patetica presunzione. Ma il peggiore di tutti è il patriottismo nazionale, perché è quello che, con i suoi abusi prepotenti e la sua cecità finisce per provocare tutti gli altri. Ogni volta che viene messo in discussione l’ideale patriottico-nazionalista con animo critico, si alzano gli scudi e le inquisizioni. A tanto arriva chi ha fatto dell’identità collettiva la sua stessa essenza di vita, incapace di ammettere che, di fronte a sé, non si erge un’altra identità opposta, simmetrica, che gli permette di affermarsi, ma solamente il fantasma proiettato del suo desiderio. L’accusa più grande nei miei confronti è stata quella di essere una “vestale dell’anarchismo” che non getta il cuore nella causa palestinese perché sicuro tra le mie mura occidentali.
Mi pare opportuno chiarire allora, e una volta per tutte, la mia posizione dinnanzi alla “causa palestinese”: Patrie? No, grazie!
Ritengo le patrie delle giustificazioni allucinatorie dello scontro bellico e della militarizzazione della società. Certamente in questo caso non contano solamente le ragioni nazionaliste nel legittimare le guerre, ma vanno inseriti anche i “valori eterni” (quali “il trionfo dell’Islam”, che tanto viene velato ma che serpeggia in ogni comunicato che in inizia con “In nome di Dio, il clemente, il misericordioso”, quello dell’ebraismo e della “legittima difesa armata dell’unica democrazia in Medioriente”, ecc.); però risulta indubitabile che i motivi patriottardi ricoprono qualsiasi argomentazione riguardo all’opportunità di uno sterminio. Chi pensa che opporsi al militarismo costituisca ai nostri giorni la strada fondamentale per la radicalizzazione della giustizia sociale, deve logicamente opporsi ad ogni enfasi del patriottismo, dal momento che la vendita di questo prodotto oscurantista e avariato è solita accompagnarsi con il traffico delle armi. Come inciso a chiare lettere da George Orwell, la guerra non è mai tra Stati, ma delle classi dominanti nei confronti di quelle subalterne. Se nelle guerre avessi la certezza che morissero solo i padroni e i mercanti di armi, io forse non sarei antimilitarista e potrei anche trovare delle giustificazioni a tale gioco al massacro. Ma per come stanno le cose, impegnerò tutte le mie forze e la mia eloquenza per gridare: “NO!”
Detestare le Patrie e disprezzare la nazionalità non significa rifiutare la solidarietà necessaria ad ogni gruppo sociale, né tanto meno condannare l’incanto estetico delle differenze di costumi, lingue, riti e stili di vita. Non significa nemmeno dimenticare le tradizioni comuni, sebbene si debbano naturalmente valorizzare in maniera più scettica e contrastare l’ardire, sovente implacabile, del patriarcato. Se, per essere liberi, bisogna liberarsi da quei simboli venerabili tramandati dal passato, non ci sono tradizioni che tengano: non esistono dottrine progressiste che germoglino “dal sangue e dalle viscere” (per popolari che queste pretendano di essere), ma nascono dalla ragione e dalla riflessione. E nulla di ciò che si rifiuta d’essere adeguatamente discusso in assemblea merita rispetto, né si è obbligati a piegarsi alle leggi di uno Stato o di un dio. Rinnegare le patrie e le nazioni significa restituire alle individualità la capacità d’inventare e di dimenticare, di essere differenti e di essere anticonforme alla tradizione, di assaporare la libertà e l’emancipazione.
Né dio, né stato, né guerre: liber* tutt* in libere terre!